Abbiamo intervistato Marco Aletti, istituzione del football italiano, per scoprire qualcosa sulla sua carriera e sulla diffusione di questo sport nel nostro paese
Quello di Marco Aletti è un nome strettamente legato al movimento del football in Italia. Uno sport di matrice fortemente statunitense, che negli anni ha saputo ritagliarsi uno spazio nel cuore di molti appassionati lungo lo stivale. La storia di Marco e del suo amore per questa disciplina inizia all’alba del nuovo millennio: “da vent'anni gioco a football, per dieci ho militato nella nazionale italiana”, racconta, mentre cerchiamo di ripercorrere una carriera costellata di traguardi importanti, tanto a livello di nazionale quanto di club. “Ho giocato in due squadre varesine e in due milanesi, ma quella che è diventata la mia vera casa sono i Seamen Milano, con cui ho vinto 4 titoli italiani.” Una carriera e un palmares importanti, che però non rendono del tutto giustizia a Marco Aletti, che fuori dal campo è anche “padre di una ragazzina di 11 anni, mia infinita riserva d'energia”, e inoltre nella vita di tutti i giorni è un infermiere specializzato, responsabile della formazione per un'azienda sanitaria.
“Mio padre era un giocatore e sin da piccolo quindi ho voluto cimentarmi in questo sport”, racconta, spiegando inequivocabilmente che l’amore per il football è iscritto nel DNA di famiglia. Inizia prestissimo, nel settembre del ’99, e da lì non si ferma più. Il percorso però non è stato una passeggiata, anzi, non sono mancati gli ostacoli e le difficoltà. “Abitando nella periferia varesina, per andare ad allenamento dovevo prendere due autobus. Per fortuna al ritorno avevo un passaggio, altrimenti avrei dovuto aspettare la maggiore età per potermi allenare.” Una serie di circostanze fortuite gli permettono quindi di continuare sul suo percorso, che a livello fisico parte da una condizione piuttosto complicata: “a 14 anni, quando ho iniziato, pesavo 67 kg e i miei allenatori, per quanto bravi, non erano esperti dello sviluppo del fisico in età adolescenziale”.
Proprio l’adolescenza, secondo lui, è una fase cruciale per poter imparare a conoscere e apprezzare questo sport: “credo sia la fase più importante per poter vivere e imparare dal football sia, perchè ormoni e stress posso essere canalizzati in uno sport che viene chiamato, giustamente, lo sport di squadra per eccellenza”. C’è quindi la necessità di portare avanti una campagna di sensibilizzazione che parta dal basso, da quando gli atleti in erba sono giovani e pronti a recepire tutti i valori dello sport. “È importante continuare a investire tempo e magari soldi nelle scuole, e dare visibilità anche ai piccoli futuri campioni, in un’ottica di squadra prima che di elogio al singolo, anche se talentuoso.”
“Grazie all’assiduo lavoro di molti, tra cui Luca Cova e Cristian Bianchi”, continua Marco, “il football ha iniziato a farsi spazio all’interno di molte scuole, arrivando a tantissimi ragazzi”. C’è però da sfatare il mito che sia uno sport violento, credenza diffusa che spesso rischia di tenere lontani i possibili appassionati. “I genitori sono i primi a dover essere persuasi che non si tratta di uno sport pericoloso, per quanto sia di collisione”, aggiunge, spiegando però che la soluzione esiste, e nel suo caso l’ha visto combinare l’aspetto ludico con quello educativo. “Un progetto che mi ha entusiasmato è stato quello di dare la possibilità ai ragazzi di trovarsi un'ora prima degli allenamenti, per poter fare compiti e studiare insieme.”
Se la diffusione in ambito scolastico e grazie al web – “la rete dà molta visibilità al nostro sport, sicuramente spettacolare, e questo negli anni ci ha messo più in luce” – ha aiutato il football a diventare uno sport a tutti gli effetti, su scala nazionale, anche in Italia, ci sono ancora aspetti sui quali bisogna lavorare. “Il tempo che le squadre possono investire per gli allenamenti è molto poco. Quattro ore alla settimana, le più organizzate sei”, osserva, non con una punta di amarezza. Nonostante tutto però, nonostante l’importanza della tattica, del lavoro fisico, della sensibilizzazione, il consiglio più importante che Marco si sente di dare a chiunque voglia iniziare è uno solo: “tutti abbiamo iniziato da zero, la maggior parte dei movimenti che facciamo non sono naturali e quindi c'è bisogno di sbagliare, sbagliare ancora e migliorarsi! Non c'è obiettivo irraggiungibile per un gruppo coeso, quindi la cosa più importante rimane fare squadra”.
Competitività e spirito di squadra sono quindi sinonimi non solo della carriera di Marco Aletti, ma del football in generale. Uno sport duro, fisico, faticoso; ma anche una palestra di vita, una scuola di disciplina e valori applicabili in tutti gli ambiti, dentro e fuori dal campo. Sono stati proprio questi valori e questi principi a permettere al campione italiano di dar vita ad una carriera così longeva e vincente. Provare per credere, quindi!